SCRITTURA BALSAMO DEL VIVERE
“Per ora il sollievo che mi procura scrivere queste righe è,
sicuramente, un modo di sfuggire a questo scivolare verso il nulla che mi sta
vincendo e che, disgraziatamente, mi risulta più familiare di quanto io stesso
immagini quando lo evoco come qualcosa di trascorso senza lasciare traccia
apparente.”
Ho scelto questo passaggio fra i tanti che avrei potuto
scegliere da La Neve dell’Ammiraglio di Alvaro Mutis.
L’ho scelto senza rifletterci. Solo successivamente ho riconsiderato
il passaggio, o meglio il tema in un ordine più personale, meno generico,
filosofico-astratto. E ho riportato la scelta su di me e sull'ampio significato
dello scrivere in relazione a me stessa e alla mia vita. Come per Marqoll, scrivere
ha principalmente una valenza terapeutica, balsamica, lenitiva, addolcente,
necessaria. Inoltre possiede la peculiare facoltà di focalizzare i pensieri e di
penetrarli e decifrarli e tradurli. Di dare loro significato e senso e infine forma
concreta di segno. E ancora, scrivere permette di affondare nell'intimità più
profonda dell’ io, del mistero di chi e cosa siamo. Sensibilità, intelligenza,
intuitività, precognizione, visione. Ciò che si è in essenza.
E di nuovo, scrivo, come Mutis, come Maqroll, nella
mediocrità del mio passo, nel limite che mi è proprio, per sconfiggere questo scivolare
verso il nulla, e dare sollievo all'inalienabile, inesorabile, irriducibile
senso di solitudine. Di queste giornate che scorrono disertate dai sensi,
dominate dalla noia, devastate dalla solitudine. Nella reiterata distanza dagli
altri, incolmabile. A cosa si riduce
dopotutto la vita?, a pochi attimi d’inaspettata empatia, di breve sfioramento.
Di labile contatto. Con altri esseri umani, con altri aspetti della vita. La
natura, l’arte, la musica. Pochi momenti di collisione, di compenetrazione
simbiotica, di fusione. Di cui ignoro totalmente l’origine, la formazione, la
fonte. Una combinazione di forze chimiche, di sinapsi accese. Chissà, forse
generate da richiami rimandi nostalgie ricordi. Di qualcosa di vissuto a pieno,
inconsapevolmente. Un attimo di brivido lucente, ardente, vibrante, pulsante. O
di benessere calmo, largo, caldo, confortevole. Del tepore di un nido sicuro. Nell'infanzia
della vita, nell'infanzia dell’adolescenza. A intervallare smisurati anni di silenzio. A
dare tempo e misura. Oppure a toglierli totalmente.
Ho scelto Mutis, ho scelto Marqoll.
L’ammaliante scrittura di Mutis mi ha fatto scivolare nel viaggio
onirico di Marqoll, in una metafora della vita fin troppo evidente. Ma è la
magia del linguaggio che mi ha portato con sé e che ha avuto la meglio, centrando la cifra del romanzo. Un viaggio
che è una decisione sbagliata, un affare che non porterà a nulla. Fin troppo
ovvio. Il viaggio e il suo scivolare attraverso la selva, nell'umidità
soffocate e afosa. L’acqua fangosa copre il fondo oscuro ed emana odori
nauseabondi, di vegetazione in putrefazione e di qualcos'altro che neppure si
osa immaginare. L’odore melmoso indescrivibile della indios che lo ammala, la febbre
del pozzo nero, la lotta fra la vita e la morte. L’ambiguo compagno di viaggio rappresenta l’orrore di azioni disumane,
compiute nell'indifferenza. La banalità del male, come sempre. Il comandante e
il capitano riconoscono il Gabbiere, chi è, sanno perché è sulla barca, in
viaggio verso la segheria. Sanno che sopravviverà, che è immortale. Un attimo fuggevole di contatto. Niente di
più. Niente di meno. Flor Esteves è la donna sognata, che non esiste. Anch'essa
metafora dell’amore fantasma, di wallaciana memoria.
La miniera e il canyon sono i luoghi simbolici della
profondità, della ricerca del sé.
Ma è scivolando col Gabbiere che sono entrata nel sogno, nel
suo sogno, nel suo procedere insensato e
slabbrato, oppiaceo. Tutto è emotivamente contenuto, l’ansia, il disagio, il
dolore. Faccio sogni strani che turbano il mio risveglio ma presto svaniscono.
Sono anch'io dove non vorrei essere. Ho preso la direzione sbagliata, quella che
porta al nulla.